La presenza dell’esserci

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Si snocciola in tasca il tempo trascorso insieme, dispiegato sul tavolo del bar, tra le tazzine del caffè bevuto in fretta, ingoiato insieme alle parole e agli occhi -fissi- su di te.

Sono stati giorni -lunghi- trascorsi dietro al vetro, senza mai perdersi uno sguardo, sfiorandosi solo la pelle, a volte nemmeno, un filo di respiro tra noi, solo un’intesa sollecita e pura, e cedimenti, paure, corse per sfuggirsi e ritrovarsi, un unico punto fermo, noi.
Sono stati giorni nei quali abbiamo dubitato di quello che avevamo scritto/detto/fatto/visto/sentito, in nome di falsi miti, fenici bruciate e mai risorte, un utero in affitto abortito, una bava di lumaca infettiva, dove passava lasciava arso e brullo. Abbiamo dubitato, corso il rischio di finire, di spegnerci, di non esistere e forse, di non essere mai esistiti.

Sono stati giorni pesanti. Succede che li ripensiamo, più tu che io, che sai bene, la mia memoria dovrebbe essere lunga -sono una donna si dice- ma non lo è, o forse ero morta quando ci siamo fatti a pezzi, non li voglio ricordare più, sono stati giorni bui, ora non più.

Guardo questo muro. Siamo in un bel borgo, ci sono muri ben conservati, case, mattoni, piccole vie pulite e linde. C’è gente che cammina, parla, gente che sorride, potrebbe essere la nostra casa, siamo fatti così, accogliamo, ci apriamo agli altri, siamo il filo da cui tutto si dispiega, siamo un unico sorriso e due vite.
Guardo questo muro. C’è una pianta, forse è glicine, ma è presto, siamo ancora in inverno, non ci sono le gemme ma si vede che la pianta è viva. Resta lì, appoggiata al muro, lui la sorregge, lei lo decora.
Sembriamo noi due, la nostra casa è muro, tu la forza, io la linfa, tu il sostengo, io il decoro.

Guardo questo muro. E poi guardo te, che mi sei accanto e parli e penso che, alle volte, casa è dove sei con me.

Dunque

Dunque il tempo passa, amico mio, succede che ci si incontrino gli occhi, o le mani, succede che mi interessi a te, alla tua pelle chiara, al soffio di un dente bucato, quelle parole che un giorno erano chiuse ora scorrono lisce, dunque dimmi cos’è cambiato che non so?

Dunque il tempo passa, amico mio, non sai quanto mi strugga nel soccorrerti sempre, nemmeno lo vedi, talvolta sì, quando mangiamo la cioccolata senza pensare che poi è solo zucchero e passerà, le lacrime no, la fitta al cuore, una allo stomaco, viviamo di coltelli conficcati, tu li togli a me, io a te, ritornano i bastardi, li cacciamo via e siamo così, due binari paralleli che si incontrano in un letto, per tornare a correre in direzioni diversi, facciamo giri enormi e tante parole, non hai mai taciuto, nemmeno io, forse chissà, doveva andare così.

Dunque sai, il tempo passa, amore mio, e lo vedo sai quando accarezzi me, i miei pensieri scardinati, i capelli che poggio stanca, la sera, nel grembo delle tue parole.

 

Giorni spettinati

Sai quei giorni spettinati?

Ti ci nascondi nei tuoi capelli, raggomitolata la tristezza tra i nodi, non si riesce a mandarla via.
È la malinconia del tempo finito, dell’assenza, dell’essersi perduti.
Basta allora partire, un viaggio in macchina, il riconoscersi sotto al vischio, tra gli sguardi costanti e rinnovati.

Non è dell’amore che hai bisogno ma della profondità di un sentimento eterno.

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Porto nel cuore

Cosa porto nel cuore?
Una manciata di ricordi, la forza delle mie passioni.
La tenerezza del tuo abbraccio.
Voglio solo pensieri belli, da condividere come un panettone mangiato a pezzi grandi, con le mani, mentre i tuoi occhi raccontano le spirali spesso cieche del tuo cuore.

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Kintsugi Chiarartè

Come un cassetto sparpagliato

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Qualche chiodo ribattuto, scappato da una cornice di famiglia, divelta dal tempo corroso; un foglio usato, una parola mozza incollata alla penna, calligrafia tremula dell’infanzia finita e tornata, così è la vecchiaia; due pastiglie masticate e non ingerite, una caramella per la gola, un santino e una corona, sgranata e non pregata, succede quando la notte incalza tra le rughe. Un fazzoletto piegato a mano, odoroso di eucalipto e nel segreto, una castagna d’india, per azzuffare i malanni alla porta, lasciandoli stesi, così si fa nelle mani delle nonne, così è un po’ l’amore, lo sai anche tu.
Come un cassetto sparpagliato sono io, ripiegata male, troppi nodi mai risolti, una macchia di colore, forse un filo d’erba.
E un tuo bacio. Che mi disordina d’amore.

What I’m Thankful For

È nella curva tonda delle tue labbra che faccio nido dei miei baci, tra le tue braccia forti la calma dei miei giorni.
È quando chino il capo di fronte a te, in segno di rispetto, quando sorrido della luna scolpita ai lati dei tuoi occhi.
È quando ci sei che rendo grazie al Signore per la pace che ho. 

 

Una foglia sparsa

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Lo lasciò posato sul davanzale ad aspettare ogni mattino il consueto vociare della strada. Spolpato del cuore, una rinsecchita pelle a ricoprirgli le terga, qualche grano di buccia avvizzita e i semi, aridi e deposti.
Per qualche tempo pensò fosse un viaggio di ritorno, il bicchiere di caffè lasciato finché si freddi, il bucato steso, la pentola a bollire; ma nulla accadde se non il vento. E qualche foglia sparsa.

Quando fu chiaro che nessuno sarebbe tornato, cartolina mai spedita a un mittente ignoto, non fu preso dalla desolazione, dall’isteria del pianto o della solitudine avverata.
Vide il calore del sole che l’aveva scaldato sempre, fuori dalla fitta rete.
E s’accorse di esserne fuori.

 

Le puttane

Le puttane stanno lungo la strada che porta al monastero. Non ero mai passata di là, mi sono trovata per lavoro a passarci più volte durante il giorno per diversi giorni e loro erano sempre là, lungo la strada.
Nere, vestite succinte, altre meno, lungo la strada stretta, alberata, una strada di grande passaggio, passano auto, camion, autoarticolati, è a due corsie ma si sta stretti e si fa fatica a tenere il proprio spazio se trovi qualcuno che corre forte . Nere, camminano ancheggiando, in fila indiana, a volte sparse, raggiungono da non so dove la loro piazzola, sporca di immondizia, legni bruciati, un bidone, carta, viscere umane e dignità. No, quella no.
È un corridoio senza fine quella strada, arriva da una parte lontana e finisce in una parte lontana, corrono uomini, donne, macchine, biciclette, moto e loro sono lì, ferme nelle piazzole sporche e agitano le braccia, fanno segno di fermarti, che c’è carne anche per te, ma sono una donna, non mi hai vista? e ho anche una figlia accanto, guarda bene, non tutti vanno a puttane, magari qualcuno si salva, qualcuno è fedele, qualcuno non mette il sesso sopra ogni cosa, si farà una sega, forse è meglio che andare a puttane, no?
E invece qualcuno si ferma, una macchina, due, ogni giorno qualcuno si ferma, sono uomini, hanno una macchina e la targa, qualcuno li conoscerà, ma loro si fermano nella strada stretta, in fila indiana e se ne ne fregano se dietro c’è traffico, loro devono andare a puttane e del resto quello è una sorta di bordello a cielo aperto, se solo avessero messo un parcheggio non avrebbero parcheggiato no, questa gente se ne frega anche delle regole, dei sentimenti, deve solo scopare e via e cosa importa se quella donna nera che hanno di fronte non ride, non parla, non ansima, non gode, godono loro no?
Tanto le pagano, come galline da batteria, che importa se godono? Non è compreso nel prezzo l’orgasmo, forse se lo fosse costerebbe di più, e dovrebbero anche perdere del tempo per farle godere, no, a quegli uomini bastardi conta solo il loro godimento, pochi spicci, veloci, nel prato nascosto, forse c’è anche un materasso chissà, fetido di fluidi umani, ma che importa, hanno messo il preservativo, che conta se prima c’era qualcuno, fammi godere, su, svelta, che devo tornare a casa per la cena.

Le puttane stanno lungo la strada che porta al monastero.
Vorrei potermi fermare a raccontarle quanto è straordinario l’amore.

 

Fuori

Seduto, mi guardi e vedi oltre, nel corpo imperfetto, tra la pelle che ti aspetta e il desiderio che non passa.
Sono anni assetati, trascorsi al lato di un fiume marcio e odoroso di sconfitta, incuranti dei fallimenti, anni in cui troppo è stato chiesto al cuore e da tempo l’amore è stato accantonato, svezzato dal tradimento.

Seduto mi guardi e sorridi, come sempre accade, ai lati della tua bocca sorniona, quella bocca che genera, venera, parole sdrucciole e sghembe, in rima, mai un fallo che la grammatica è sacra e benedetta. Scivola la lingua calda, ad ogni incontro riconosce il suo naturale esistere mentre fuori, fuori…

Hai mai visto il colore della nostra intimità?

Chiara 

È il ricordo di Te che non temo

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È il ricordo di Te che non temo, la mani sudate sotto le coperte, lo sguardo volto indietro, il riso diviso nel piatto.

Sei tornato, l’avevi detto, non una minaccia, una promessa, la carta arrotolata nella boccia di vetro, la pasta a fare fermaglio, prendi il tuo numero, il mio, appoggia le tue labbra sul mio seno, restaci, come se fosse il vento, il senso, hai un pentimento, non te ne andare, pensavi sarei fuggita, vero? Invece no.

È il ricordo di Te che non temo.
È la tua presenza che fa di me la vera differenza.

Chiara