Il tempo per elaborare la perdita

Il tempo ha mille accezioni, si pensa sia solo uno scorrere monotono e regolare di attimi, ma in realtà è mille cose altre e ognuno di noi ne conosce la declinazione.
Il tempo è soggettivo, dipende da come viviamo, dipende da come stiamo, dove siamo, le variabili sono infinite: ma tu come lo vivi?

Io ho cercato di fermarmi a riflettere su quello che è successo. Lo so, la pandemia ancora insiste su di noi, conosco bene i limiti, ma non posso mettere dubbio sul fatto che sono successe delle situazioni che ora non ci sono più e con le quali ho dovuto inevitabilmente fare i conti.

Sono stata a casa. Ho vissuto la perdita di tutti i miei progetti che implicavano uno spostamento – ed erano tanti e importanti -. Ho pianto.
Ho deciso che piangere fosse il modo migliore per affrontare la perdita. Mi sono presa il tempo per piangere. Non lo reputo infantile, mi sono sentita adulta e consapevole; arrabbiata, delusa, affranta, desolata. Adulta ma triste e in grado di piangere. Anzi, era corretto che io piangessi, mi meritavo di piangere.
Non ho mai pensato che ci fosse qualcuno che poteva stare peggio di me, come era vero che fosse, mi sono concentrata su di me, mi sono presa il tempo giusto per me.

Dopo ho cominciato a fare. Non necessariamente i lavori che avevo in programma, ho inventato. Ho creato situazioni nuove, inedite, legate al filo stretto della distanza, il corso online di Kintsugi moderno, la nuova collezione di ciondoli “Close2U”, la mostra virtuale di arte Kintsugi. Quel tempo non era un tempo ordinario, ma un tempo nuovo ed è così che l’ho vissuto, dando anima e pensieri per costruire qualcosa di dedicato. Sì, il tempo dedicato al covid, un tempo limitato.

Ho vissuto a casa, con marito e figlia, un tempo solitario e un tempo in comune, cercando per ognuno di noi di creare uno spazio di condivisione e di solitudine, consapevoli che fosse il rispetto a dominare ogni nostra azione. Mio figlio vive lontano, a Dubai, anche lui obbligato al lockdown, non ero pronta a non vederlo per mesi -avevo programmato una vacanza da lui, ora solo rimandata- e ho sofferto parecchio la lontananza non raggiungibile: è stato, ed è ancora, il tempo della distanza. Questo è un tempo che alle volte strozza il fiato e i pensieri, devo solo restare in silenzio, ferma, ad aspettare che passi la fase acuta e passa, passa quando capisco quanto sia importante che i figli crescano perseguendo le proprie passioni e amori.

Tempo. Ho chiamato questo periodo tempo sospeso ma in realtà è stato un contenitore di piccoli segmenti di tempo che ho vissuto seguendo ogni mattina un progetto nuovo, pronta a cambiarlo, così come si segue una corrente variabile, la marea, un’onda improvvisa, veleggiando a vista. E no, non ho avuto strumenti di bordo, solo la vita a farmi da timone.

Ora, in attesa che qualcosa cambi, divisa tra il prima e il dopo, compresa nell’oggi, sto riprendendo un tempo di normalità che equivale ad adattare le nuove regole a quello che facevo prima. Non è complicato, basta sapersi adattare, basta evitare falsi allarmismi e disagi elevati, senza odio, rabbia, o critiche insensate.

E sto sperimentando il tempo vuoto.
Cos’è il tempo vuoto? Non è il tempo dell’ozio, è il tempo del lasciare fluire. Il tempo dell’ascoltare, il tempo del riposo e il tempo della crescita.
Si dice che quando si è piccoli e si resta a letto con la febbre, si cresca.
Il tempo vuoto è questo: restare distesi e sentirsi crescere.
Non mi capita spesso di dedicarmi il tempo vuoto, c’è una sorta di ansia da riempimento, ma ora più che mai sento che me lo merito.
Ce lo meritiamo tutti, dopo aver dedicato tempo ad elaborare le perdite, ora ci meritiamo il tempo vuoto.

Poi, domani o chissà, arriverà di nuovo il tempo del fare.


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Cicatrici d’oro

Ancora una volta la mia arte mi permette di entrare nella vita a fondo, toccandone ogni sfumatura.
Falò è un programma di attualità in onda su RSI la1 (Tv Svizzera); una delle ultime puntate ha affrontato il tema delle sfide del destino, quando questo si accanisce e rompe i piani, li spezza, li frantuma e sembra che non ci si possa più rialzare. Leonardo Colla, regista, con Roberto Bottini, ha trovato 5 storie di uomini e donne che hanno saputo rialzarsi dopo un incidente, con più coraggio e forza, persone nuove e  fiere dei loro cambiamenti.

Io. Io sono l’oro che unisce le cicatrici, mie le mani che lavorano a ricomporre la ceramica che si rompe, cadendo a terra.

Mi sento onorata di aver potuto partecipare a questo progetto che vi invito a vedere perché è un insegnamento di vita.

Cattura (3)

CICATRICI D’ORO qui il link 

Luca Cereda deve smettere di giocare a hockey a soli 26 anni per un grave problema cardiaco e diventa un allenatore di successo, trascinando l’Ambri Piotta ai playoff; Andrea Lanfri perde entrambe le gambe a causa di una meningite e si appresta a scalare l’Everest con delle protesi; Cindy Dermont Rigolli viene calpestata dal suo cavallo mentre salta un ostacolo rimane cieca da un occhio e sorda da un orecchio, torna in sella e diventa istruttrice federale d’equitazione; Enzo Muscio resta senza lavoro assieme a 320 colleghi in seguito a una ristrutturazione, vende la casa, ricompra l’azienda dove lavorava da 23 anni e si trasforma da impiegato in imprenditore di successo. Destini diversi uniti da un filo comune: un fatto grave che ha segnato l’esistenza di queste persone senza però piegarle, ma trasformandole, rendendole più forti. Il denominatore comune si chiama resilienza: una forza che ognuno di loro ha trovato superando la propria fragilità, affrontando il dolore attraverso l’immaginazione e soprattutto il lavoro. Ecco allora che le cicatrici rimaste sul corpo o nell’animo di queste persone diventano dei segni da mostrare agli altri, emblemi di un percorso virtuoso. Un percorso che diventa una testimonianza preziosa da condividere con gli altri. Molte di queste persone resilienti testimoniano la loro tenacia, la loro capacità di non mollare mai nella loro vita professionale, ma anche scrivendo libri, tendendo conferenze pubbliche nelle scuole o nelle aziende, o anche semplicemente come genitori.

 

15000 caratteri. O quasi. (perché non è la perfezione che conta)

“15000 caratteri. O quasi. (perché non è la perfezione che conta)”
Primo classificato premio letterario Apid Imprenditorialità donna dedicato a Angiola Audino.

15000 caratteri. O quasi. -perché non è la perfezione che conta-

Quella volta che il fiato si era fatto corto me la ricordo bene, sembra ieri, dietro l’angolo dei ricordi. Avevo in mano una cartellina decorata con un albero dorato, spoglio, poche bacche a fare da chioma e radici, radici profonde, incise nella terra, quasi scolpite.
Un negozio aveva deciso di proporre i miei lavori ai propri clienti, io dovevo solo preparare un listino, qualche foto e tutto sarebbe partito.
Quanto mi sono sentita provinciale, la mia cartellina decorata a mano, il listino preparato con cura e tanta difficoltà. A ripensarci ora mi faccio tenerezza, non compassione, tenerezza, come quella che viene su dal fondo del diaframma certe volte, quando il cuore non ce la fa e demanda ad altri il suo destino. A ripensarci ora sale un sorriso, perché sono le paure che fanno forte il coraggio, che ci danno la forza per andare oltre, tirando fuori di noi il vero impeto, quello che cade, si rialza, cade, inciampa, cade.
Cade.
Si rialza.

Mi chiamo Chiara e sono artigiana. Da 26 anni gestisco un laboratorio di restauro ceramiche, bambole, cornici dorate, statue in legno policrome. L’ho aperto da subito, terminata la scuola di restauro Palazzo Spinelli a Firenze, anche se la mia strada avrebbe dovuto essere un’altra, tra gli scavi archeologici, a riconoscere cocci e rimetterli vicini a formare vasi, piatti, scodelle, vite raccontate dalla terra.
Il mio approccio fu nel Golfo di Baratti, nello scavo successivo al ritrovamento dell’Anfora. Rimasi nel campo pochi giorni, a casa c’era bisogno di me. Partii per non tornarvi più. Succede. Lo chiamano destino; io, semplicemente, “cambio di piano”: se ci si incolla addosso quella storia della sfortuna, delle coincidenze, si finisce per crederci davvero.
Un cambiamento, tutto qui, prendere o lasciare, la strada è una sola da percorrere. È sciocco credere di avere più vite. I piedi sono due, questo è vero, ma ciò che è magico e meraviglioso è che non possono percorrere vie differenti. Pare una beffa, forse lo è, o è solo un’opportunità. Mi piace crederla così.

A Baratti il mare scorreva lontano dal campo archeologico ma se ne sentiva il profumo, lo si respirava dalle condotte dell’acqua, nell’irrequietezza della corrente elettrica che andava e veniva, incessante e imprevedibile.
A casa il mare non c’è, ma montagne distese lungo tutto l’orizzonte.

La catena delle Prealpi Biellesi è un contorno sagomato a mano, un cesello di vette e gole, declivi e risalite. Come la vita, viene da dire, come l’amore. Forse lo è. Ci si innamora di quei boschi così selvaggi e duri, come certi volti di noi biellesi, induriti dal lavoro e dalla fatica. Quella che non molli mai, non so se la conosci. Succede che abbassi la testa e lavori, senza tregua, otto ore filate, poco svago, tanto di svago non ce n’è perché la notte viene su presto e piove così spesso che nelle strade ci girano le rane, mica le ruote.
Dicevo delle montagne e della fatica, credo sia quello il fulcro dell’animo dei biellesi, la fatica necessaria per vivere, indispensabile per sopravvivere. Ed è una cosa bella da insegnare ai bambini. Ma alle volte diventa un gioco se glielo permetti, e non distingui più cosa sia bello e cosa non lo sia. Lavori e basta, poi arriva la crisi e ti ritrovi senza qualcosa da fare, esci comunque il mattino ma è buio e nel buio intorno c’è gente che gira a vuoto senza trovarsi una spiegazione. Senza volerla trovare, a dirla tutta.

La crisi l’ho vissuta anch’io. Quella che ha falciato tutto dopo l’11 Settembre.
Non solo quella a dire il vero, di crisi ne viviamo tutti di più profonde, più intime. Prima un figlio e nel mentre la malattia di mia mamma, la seconda figlia e mia mamma che decide di andarsene via, con un preavviso di cinque anni, scompare e il vuoto si mescola al quotidiano, di madre, figlia, moglie. E artigiana.
Perché una donna artigiana è tutto questo messo insieme e non c’è un biglietto da obliterare o una fata madrina sulla porta pronta a sostituire i pezzi andati a male, quelli stanchi, stracciati dal troppo lavoro. È una crisi subdola quella della fatica, del tempo che manca, non si allungano le giornate e i clienti passano mentre i figli crescono e non ci si concede neppure il tempo di un addio.

Crisi è quando qualcosa che accadeva prima non accade più, quando la mattina alzarsi diventa un peso. Quando resti ore ad aspettare clienti che prima c’erano e ora non ci sono più. Crisi è quando le tasse soffocano, le scadenze incalzano, quando semplicemente non ce la fai più: quello che c’era prima si è rotto e non torna, l’entusiasmo, la passione, i desideri.

È facile finirci dentro, più complesso venirne fuori.

La crisi l’ho vissuta anch’io, l’abbiamo vissuta tutti, la viviamo ancora, anche se è venuta forte la voglia di rialzare la testa, quella che, nonostante tutto, non abbiamo abbassato mai. Che non ho abbassato mai.
Crisi, momenti difficili che si sovrappongono in strati compatti, un grattacielo di piani, uno dopo l’altro a sedimentare sulle spalle, sedimenti di delusioni e fatiche, intervallati da progetti e speranza.

Un calderone, lo capisci anche tu vero? Un enorme calderone che in pochi anni ha stravolto la mia vita lavorativa e personale, enormi precipizi nei quali ho rischiato di cadere, scivolare, inciampando, a terra. Ma senza mai perdermi d’animo. Cosa spinge un artigiano ad essere così folle non lo so; cosa lo inganna del tempo e della fatica e non lo fa dormire innamorato dei propri progetti non è dato da sapere: la passione è ciò che domina la mente e il cuore.

Ma poi, in fondo, cos’è la crisi se non un cambiamento? È un cambio di passo, alternato, una capovolta in avanti, una spinta accelerata o un momento di riposo. Siamo vittime della fatica, della produzione, del successo, snobbiamo il fallimento, ci facciamo vanto dell’oro e mai del fango, siamo indomiti, ci hanno fatto così. Erano tempi generosi quelli dei nostri padri, tempi senza telefono e televisione. Dedizione alla famiglia e al lavoro, fatica, sveglia presto, mai un tempo perduto, un caffè di troppo, non c’erano il vuoto e il nulla. Siamo nati così, in mezzo al benessere, quello guadagnato.

La crisi è un cambiamento. Se la vivi così poi sopravvivi, vai avanti. Altrimenti ti fermi. Per sempre, getti la spugna ancora bagnata e non prosegui più. Non è un male, io l’ho capito dopo, con quello che faccio, non è un morire, è coraggio, questo lo sai, è una forza che hai dentro e che ti dice quando è ora di mollare prima di perdere tutto. Già, è strano vero? Ogni scelta ha una conseguenza, nessuna mai incide per sempre la fronte ma lascia sempre aperta una strada, ed è quella in cui sei tu.

Mi fermo, respiro forte, dai polmoni scendo fino allo stomaco, trattengo, riparte lento, ora il cuore batte composto. Non è facile scrivere di crisi, devo far cadere la maschera, ammettere che non va tutto bene, che non sono più quella che ero, gli anni scappano dal calendario, nulla resta immutato, nemmeno il vento. Scrivere della propria crisi costa tanta fatica, ho impiegato giorni per raccogliere questi pensieri, sassi aguzzi su cui poggiare a malincuore i piedi scalzi. Non si riesce a riassumere quello che senti, è troppo intimo, di un’intimità delicata e fragile. Ma se sono arrivata qui e sono ancora viva è perché si può fare, si sopravvive, si rinasce. Questo davvero sì. Farfalla o pianta non conta, si rinasce.

Io sono rinata pianta.

Si è soliti far partire certe storie da un fatto, uno solo, chiaro e definito. Ci si ricorda l’ora, il profumo, se pioveva o c’era il sole. Siamo soliti dire che quello è il punto di partenza, indelebile, da cui nasce tutto il resto, una cascata ininterrotta.

È certo che quel fatto non è nato da solo, ha avuto un seme germogliato tutto intorno, ma la memoria ha il preciso compito di mettere luce sul quel fatto, la corona del pregio, il punto zero. Ci si innamora, lo so, di questi fatti custoditi nei taschini, e si ricama tutta la vita, un filo dopo l’altro, spirale intatta intorno ad un punto, il cuore.
Così è stato anche per me, non mi posso fare esente di ciò che accade a tutti, credersi diversi spesso ci rende presuntuosi, non sempre, ma lo è. Faccio il punto, ora lo racconto.

Erano giorni di Marzo e stavo aspettando che arrivasse in laboratorio la tirocinante per il progetto Botteghe Scuola della Regione Piemonte. Quando si aspetta il tempo non passa mai, e non è mai conveniente, nell’attesa, soprattutto se breve, dedicarsi ad altro. Ma è spesso proprio il sovvertire le regole che fa accadere l’inaspettato. Erano giorni di Marzo dicevo e con svogliata pacatezza mi ritrovai a sfogliare le pagine della mia bacheca di Facebook; non cercavo nulla di specifico, come in quei giorni in cui cammini a testa alta curiosando nelle finestre alla ricerca di un gatto affacciato. O di una pianta che sta per cadere. È raro che succeda qualcosa in questi momenti, sono un lago nebbioso i pensieri. È raro ma non per me, che sono uguale ma unica, non l’ho detto prima, ma è così, e crederlo è una follia, meravigliosa spinta verso la vita.

Dicevo di Facebook, erano tre anni fa, a un certo punto apparve una notifica e un’immagine sul mio profilo, una ceramica giapponese rotta, riparata con l’oro e un frase sulle nostre fragilità e sulla possibilità che abbiamo di accettarle e farne un tesoro. Lessi Kintsugi, Giappone. E disegnai una pianta, spoglia, dorata, con lunghe radici e poche bacche sui rami, nessun fiore, nemmeno una foglia. Radici, stelo e tronco.

Di certe storie non se ne conosce il senso, appaiono da subito amore puro. Sono getti improvvisi che arrivano diretti al cuore, senza tante spirali e angoli ciechi: ci puoi vedere subito dentro, senza esitazione, capire, anche senza toccarne la carne, la consistenza. Sono idee che nell’istante in cui sono semi già germogliano e appaiono nella loro bellezza presente e futura.

Fu amore a prima vista, mi venne una sorta di impazienza di conoscere, di leggere, una voglia di aprire la porta per entrare in un nuovo mondo. Lo so che a dirlo ora pare di sentire una storia narrata per il solo gusto di leggerla ma fu proprio così.
Due ore dopo aver visto l’immagine di una tazza restaurata con l’arte Kintsugi mi ero già addentrata nelle venature più profonde, un labirinto che ancora ora, a distanza di tre anni, mi tiene avvinta e, ogni giorno che passa, invece che trovare l’arrivo, genera nuove intricate e curiose vie.

La pianta dorata venne subito. Mi immaginai le radici che affondavano nella mia esperienza lavorativa e rami tesi verso il cielo che rappresentavano il futuro, il nuovo, la conoscenza. Senza foglie né fiori perché era troppo presto per vedere i risultati, come ancora ora lo è, ma bacche. Bacche che saranno semi, fiori, foglie, sono il nuovo nascere. Sono il me che si trasforma. Sono il mio cambiamento.

L’arte Kintsugi nasce in Giappone alla fine del 1400, kin significa -oro-, tsugi -riparare-. È una tecnica antica che utilizza la lacca autoctona Urushi per incollare pezzi di tazze tenmoku da cerimonia del tè, e la polvere d’oro per ricoprire le rotture, mettendole così in evidenza.

Kintsugi porta con sé un messaggio importante della filosofia Zen giapponese, l’estetica del wabi sabi: nulla è perfetto, l’imperfezione diventa ricchezza e talento e per questo occorre valorizzarla con la polvere d’oro.
Al messaggio ci sono arrivata dopo, quello che mi premeva, da restauratrice, era imparare la tecnica. Non è stato facile, la mia impostazione di rispetto delle regole e dei materiali mi ha obbligato da subito a studiare nei minimi dettagli questi ultimi, i tempi, gli strumenti e scegliere il Giappone come paese di riferimento è stato di sicuro un azzardo, non conoscendone né la lingua né i costumi. Per un occidentale arrivare al nocciolo di un’arte giapponese implica tanto studio, umiltà, dedizione. Si tratta di cambiare visione non solo del lavoro ma della vita stessa: quando mi pongo al mio tavolo cambio prospettiva; non mi fingo un’altra, resto me stessa, ma ho occhi diversi, le stesse mani, cultura diversa.

Il primo anno è stato quello della conoscenza, ho usato ogni momento libero per studiare, per leggere, biblioteca e web mi hanno aiutata molto, ho vagato nelle notti dentro a un mondo sconosciuto con la fame di sapere: sì, fame. L’innamoramento è diventato passione, una passione che ha eroso ogni mattone del passato incidendo fortemente il futuro. Passato e futuro si sono fusi insieme, un prezioso pavimento intarsiato di marmi diversi, di colori differenti, culture differenti.

Il secondo anno è stato quello del lavoro. Ho trovato un fornitore in Giappone da cui acquistare i materiali, lacca urushi, tomoko, pennelli, polvere d’oro, cotone di seta, ogni più piccolo dettaglio, ogni giorno trascorso a vedere video giapponesi per imparare la tecnica, ogni volta un tentativo, spesso un fallimento. Non è stato facile imparare, certo mi ha aiutata molto avere 25 anni di esperienza da restauratrice alle spalle, la capacità di restare ferma, tranquilla, di fronte ai pezzi rotti di una ceramica, studiarli profondamente prima di partire. Mi ha aiutata seguire il ritmo del collante, ad ognuno il suo tempo, non esiste orologio capace ma è la pratica, il rinnovato tentativo, rottura, lacca, rottura, incessanti prove, non mi fermo di fronte al fallimento, forse dovrei, questa volta no.

Come dopo una tempesta, il viso bagnato e la testa confusa, nelle orecchie solo il vento, sono giunta alla riva e ho cominciato a padroneggiare l’arte Kintsugi e le prime opere sono nate dalle mie mani.

Dapprima quasi in silenzio, ho portato il mio messaggio di unicità della fragilità: dal mio studio è nato un breve saggio, “Kintsugi, l’arte di riparare con l’oro” e sono nate preziose ceramiche, “Imperfetti”, ceramiche che i ceramisti scartano perché rotte o fallate e che io riparo con la polvere d’oro, ridando loro valore.

Il passo verso il mondo l’ho fatto con il web, aprendo il sito dedicato, la pagina Facebook, scrivendo le mie storie sul blog personale, e piano piano ho catturato la curiosità e l’interesse di molte persone. Persone che mi scrivono, mi portano i loro pezzi da restaurare, persone che mi raccontano le loro storie di fragilità, di rinascita, di fallimento. Quello che pensavo fosse solo una nuova tecnica, sta diventando uno stile di vita che mi trasforma. Il cambiamento.

Il mio cambiamento.

Il terzo anno è questo, il 2017, l’anno dell’apertura. Ho raccolto tante storie e ho deciso di narrarle; porto l’arte Kintsugi tra la gente, tra storia e tecnica, consapevole che questo è il momento adatto, perfetto nella sua forma, un movimento continuo nella mia mente, la creazione in divenire, la passione che ora è un amore adulto, saldo.

Resto io, Chiara, restauratrice di ceramiche e bambole; ho aggiunto alla mia vita l’arte Kintsugi e sono nuova.

E vorrei far sapere che essere nuovi a 50 anni si può. Senza rimpianti per quello che è stato, con la meravigliosa curiosità del presente. Il mio. Nel mondo.

Chiara

 

Ma dove sono stata per 50 anni?

Leggo, leggo molto, la lettura mi affascina, intriga, mi innamora, mi estranea, mi fa vivere nuove vite, mi appassiona.
Leggo, non sempre imbrocco l’autore giusto, alle volte inciampo, mi affatico per finire le pagine, altre invece le divoro, le ritaglio, le dipingo, le vivo dentro. Dentro di me.

Ultimamente ho letto libri, alcuni scritti da donne, e che mi sono stati regalati e che mi sono capitati. Non nego fossero scritti bene, senza errori di grammatica intendo (beh, se no non li avrei continuati) ma le loro storie erano storie già viste, scontate, banali oserei dire. Testi da blog, azzarderei e non cito i nomi perché non vuole essere una critica la mia ma solo una soggettiva valutazione che mi porta a tenermi lontana dal leggere, ahimè, libri contemporanei.
Non tutti, ma certo genere di romanzi che travalicano in romanzetti, spesso rosa, spesso celebrativi, spesso tutti uguali, omologati: la donna single felice ma sola, la donna sposata con il marito che la trascura, le amiche, i figli, gli animali, l’omosessualità, i vegani, tutto nelle stesso calderone.

Leggo in fretta, finisco il libro, mi viene fame d’altro perché non sono stata saziata.

Poi arriva lui, Douglas Adams, la “Guida Galattica per gli Autostoppisti” 1979 e la mia lettura diventa interessante. Leggere diventa un gioco, il testo scorre, non ci sono banalità, ma follia, ironia, nessun piagnisteo, nessun amore finito/inziato/sballato; non ci sono idee già lette in altri contesti, non ci sono ripetizioni ma 844 pagine di piacere.

E chissà dove sono stata io per 50 anni senza aver mai letto prima la Guida Galattica!

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E voi, cosa state leggendo? Consigli, idee, cose belle?

Falcon Heavy, il sogno visionario e reale di Elon Musk. Verso Marte.

È decollato ieri dal Kennedy Space di Cape Canaveral, ore 21.45 circa italiane, 15.45 (ora locale) , il razzo Falcon Heavy, ideato e costruito da Space Exploration Technologies (Space X). Al suo interno non c’è equipaggio ma una Tesla Roadster, un’auto elettrica sportiva a due posti con un guidatore manichino, Starman.
La partenza è stata ritardata di 50 minuti per forti raffiche di vento; il decollo, scandito dal countdown, è stato accompagnato dalle note di Life on Mars di David Bowie.

Il lancio è avvenuto secondo programma, i booster laterali sono atterrati e il core centrale è ammarato a 100 metri dalla piattaforma galleggiante.
Ora Falcon Heavy sta viaggiando verso Marte.

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Fonte CBS News

Lo ha promesso Elon Musk, il fondatore di SpaceX, fondatore anche di Tesla Motors, presidente di Solar City, cofondatore di The Boring Company, di Paypall e di OpenAl. Elon Musk, classe 1971, sudafricano, è un imprenditore e genio. Un visionario che realizza i suoi sogni.
Vi invito a leggere tutta la sua biografia per capire ciò che in 47 anni ha saputo realizzare. Questo è il progresso che accade. In silenzio spesso dai media, interessanti a fatti piccoli e insignificanti, a beghe pseudo politiche, a strass e lustrini di facciata.

E nel frattempo una Tesla Rossa Roadster sta viaggiando verso Marte.

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Fonte businner inside

 

 

Info utili

Falcon Heavy
Tesla Roadster 
Elon Musk  Wikipedia
Elon Musk su twitter 
Elon Musk su Instagram
SpaceX su Twitter
Il momento del decollo 

Rosso. Per fortuna.

Come tutti gli anni il mio acero arrossisce. Lo fa in fretta, in Autunno, nel giro di pochi giorni arriva il freddo e lui rilascia il suo colore, rosso fiamma, passione, rosso acero insomma. Rosso come il mio cuore.
Il mio acero non è un tipo timido, lui arrossisce con grande stupore, il rosso è acceso, forte, ipnotizzante. Le persone che passano vicino si fermano e lo fotografano, o solo lo ammirano, succede che le cose belle facciano battere le pulsazioni forti. No, non ho detto domare, ho detto battere. Forte. In maniera incontrollata. Questo la bellezza fa.

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Eccolo, cosa vi dicevo? Toglie un po’ il fiato, vero? Immaginate come mi sento, io che lo vedo ogni giorno dal mio tavolo di lavoro, appare così, imponente, mica chiede permesso, è sfacciato il mio acero, occupa tutta la finestra e toglie la luce. E anche il fiato, ma già l’ho detto. Non toglie l’amore, quello no, il rosso aggiunge se mai. Questo è quando lo incontri lungo la tua vita, mica scappi all’amore no? O forse sì, dipende da te, di vita una sola ne hai, mica due.

Ma dicevo dell’acero, quello strafottente, se ne infischia dell’autunno, del fatto che sia una stagione dimessa, spesso triste e malinconica, lui esplode, e come se esplode. Sfavilla. Scintilla, Rosseggia, si dirà? In fondo il mare biancheggia. Il mio acero arrossisce ma non è timido. È un re, un Dio, una divinità! Una magnificenza a dirla tutta. Lo è.

Sai però cosa succede? Questa mattina ho alzato lo sguardo, non sarà per molto tempo, così mi affretto a scriverne, di getto, lo capisci anche tu che sto scrivendo di getto, di fretta, lo senti che sto correndo sui tasti? Divago. Questa mattina una foglia ha cominciato a volare. Non intendo come un uccello, come un aquilone.
A ben vedere sembra sospesa, volteggia ma non se ne va, sì, sospesa, come quando ti guardo nel fondo degli occhi e resto così, sospesa appunto, cercando di leggere l’amore dove va. E mica lo capisco, ma va bene così. acero2

Eccola, la foto rende come può, ma la foglia è lì, pare appiccicata al cielo. Vola ma non se ne va, si stacca ma resta. Certo il segreto c’è, non è mica magia, anche se vorrei lo fosse e forse lo è, è un filo sottile, invisibile agli occhi, ed è meglio così.

Questa mattina il mio acero è arrossito, lo ha fatto in tutta la sua magnificenza, a voler dire che tutto può. Ma poi, alla fine, se guardi bene quella foglia che se ne sta attaccata senza volare, non vuole forse dirci che siamo tutti coraggiosi ma un filo legato al cuore del nostro passato lo teniamo sempre? Dorato, trasparente, nero, quello che sia, un filo resta. E ci unisce. E non ci lascia mai.

Per fortuna.

Scrivere, che bella storia!

Scrivere, tutti scriviamo!
Beh, non proprio tutti ma un bel numero corposo e succulento! A partire dai social, Facebook, Twitter, passando dai blog, quanti ce ne saranno al mondo? Quanta gente batte freneticamente i tasti nella speranza di infilare dieci parole corrette una dopo l’altra?
Scrivere, scriviamo in tanti, di noi, della vita, dei sogni, dell’amore, di poesia, delle notizie, i giornalisti scrivono di notizie, anche di bufale, ma spesso di notizie e opinioni.
E spesso le scrivono male.

Forse ci siamo persi un pezzo, forse per la smania di arrivare UNO e di scrivere sotto il magico spirito dell’ispirazione, ci siamo giocati la grammatica. 

Io certe cose non riesco a leggerle, spesso non riesco a rileggere nemmeno me stessa e ogni volta che mi rileggo mi correggo e, a rigor di logica, non mi pubblicherei mai.

Qui occorre un manuale, un foglio anche, delle regole chiare. E non si parte dall’eccelso, ma dal basso, dagli accenti, dai pronomi, dal pultroppo -c’è davvero qualcuno che scrive pultroppo?-

Ecco che può venire utile tenere sul tavolino questo articolo di Tatiana Cazzaro, copywriter relazionale  scritto per il blog della Rete al Femminile di Biella: “Come si scrive? Piccola guida per scrivere senza errori” (cliccando qui puoi accedere al link diretto, poi torna a dirmi cosa pensi di errori e scrittura)

Pitociu, Castellamonte.

Anni fa ho restaurato una statua in terracotta. Un soggetto caricaturale, un oste con una bottiglia di vino e un grande cappello a tuba. Era alta 70cm, tozza e pesante.
Pensavo fosse un ornamento mentre ieri, visitando la Casa Museo Famiglia Allaira di Castellamonte, in occasione della Mostra della Ceramica, ho scoperto chiamarsi “Pitociu” ed essere elementi creati per tenere ferme le coperture dei comignoli.
I volti rappresentati erano quelli dei personaggi del paese, tanto che si faceva a gara per averne uno a propria somiglianza. Una storia curiosa e divertente, come tutta l’arte, occorre solo un po’ di curiosità per arrivare al nocciolo.

LAVORO DI RESTAURO
Statua caricaturale di oste, h 70 cm, diverse rotture nella base, ricostruita con cemento.
Restauro eseguito con malta PV, colore cocciopesto, mescolata a emulsione acrilica resina PV. Finitura a cera.

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STATUE CARICATURALI, I “PITOCIU”

Questa produzione è stata realizzata solo a Castellamonte per la felice intuizione di artisti che al di là dell’inventiva avevano anche una buona dose di fantasia e di spirito critico. Infatti queste statue nascono inizialmente come un accessorio tecnico alla realizzazione dei comignoli: si trattava di collocare sopra al piano del comignolo un oggetto pesante che impedisse al vento forte delle nostre vallate di scalzarlo e scaraventarlo a terra. Sino alla terza decade dell’800 si usavano per questa necessità tecnica degli oggetti a forma di pigna, palla o fiamma di peso oscillante tra i 45 e gli 80Kg/cad. a seconda dell’ampiezza del piano del comignolo, tutti rigorosamente in terracotta.

Nel 1830 uno dei nostri artisti-artigiani stufo di creare i soliti oggetti pensò a fare una sorpresa al suo amico, maestro di scuola G. Ciafrei, e lo riprodusse in scala mutandolo in uno gnomo con fattezze somigliantissime. La sorpresa fu tanta che molti cittadini castellamontesi si fecero ritrarre creando una galleria di personaggi realmente esistiti con nome e cognome e tutti originali in pezzo unico realizzati preso la fabbrica di G. Buscaglione – Allaira.

Questi oggetti sono chiamati dai castellamontesi “Pitociu”.

Catalogo “La statuaria” Casa Museo Famiglia Allaira 
Dicembre 2011, Tuttotondo comunicazione.

Link utili
Casa museo famiglia Allaira http://www.casamuseofamigliaallaira.it/
Mostra della Ceramica di Castellamonte
https://www.facebook.com/mostradellaceramica.castellamonte

La prefazione

Da tempo volevo acquistare un libro di Raymond Carver e “Di cosa parliamo d’amore quando parliamo d’amore” è il mio primo.
Ho aspettato come un’amante il suo sposo, le persone che lo hanno raccomandato me lo hanno fatto immaginare come un innamorato sul ciglio della porta, pronto ad aspettarmi.
Apro il libro e trovo la prefazione di Diego De Silva. Premettendo che nulla ho contro Diego De Silva, che neppure so chi sia, ma ad aspettarmi sull’uscio io ci volevo Carver, non lui.
Cosa può aggiungere in più delle parole di uno scrittore, un prefazionista? Il suo pensiero, non il mio. E mi serve? No.

No, non amo le prefazioni, non le leggo, di certi libri ne ho anche tolto le pagine per ridare vero valore all’autore perché è solo di lui che mi importa. Spesso le prefazioni sono raccolte di parole vuote. Scritte da persone che non so. E che non mi interessano.

Amo la biografia, quanto è bello sapere la vita degli autori (avete mai letto ad esempio la vita di Calvino?), com’è interessante vedere in quali anni è stato scritto un libro, quali accadimenti possono aver fatto cambiare un’idea, rafforzarne un’altra.
E mi piacciono anche le postfazioni, quelle che arrivano dopo la lettura, e sono come il profumo lasciato sul collo dopo l’ultimo bacio.

Quando ascolto il cuore, vengo da te

Quando ascolto il cuore, connetto stretta la ragione, imposto le ore seguendo la tua luna e regolo in armonia la distanza tra me e te. Sulle labbra poggio il tuo desiderio, ne assaporo lenta la dolcezza, nell’aspro dei giorni acri dipanandone il senso, mi appoggio alla tua schiena deponendomi ai piedi della serenità, tra le braccia, gli occhi, tra i muti pensieri che diventano aria e vento e delicata tenerezza. E forza.

Quando ascolto il cuore, si rinnova la forza, la decisione di ciò che siamo e non appongo sigilli né muri ma vengo da te. Ogni volta che si apre il tempo, non chiedo perdono a chi mi sta accanto, vengo da te, non aspetto il verbo né la processione, vengo da te, la fede è nella presenza, non serve rosario per recitarla ma guardarsi negli occhi, sentendo la voce. Vengo da te che mi scosti i capelli dal viso e con le dita disegni l’esistenza intera, e il coraggio folle e vero di essere qua. Non demando ad altri la mia penitenza, la dipano in fretta lungo la strada per esserne vuota davanti al portone, vuota e poi colma quando apri l’uscio, nessuno è rimasto fuori perché il tempo dei miei presenti è tuo: se sei il destino corro veloce per arrivarti.

Quando ascolto il cuore mi riempio di girasoli.