Dovremmo tutti chiamarci Andrea.

Dovremmo tutti chiamarci Andrea.

Sabato, itinerario dell’abbazia a Morimondo. 19 km a piedi immersi nel giallo delle risaie, tra ranocchie saltanti e granchi rossi -sí, ci sono i granchi rossi della Louisiana a Morimondo- prede di Ibis voraci.

Passa un uomo in bicicletta, si annuncia scampanellando, si ferma e saluta. Ha 83 anni, “in perfetta salute” ci tiene a precisare, “è merito di mio figlio, sa, è medico”.
Risponde al telefono “Sono qua con dei giovani” dice, mentre ribadisco di avere 54 anni.

Parliamo di come si possa vivere sereni e a lungo.
“Dovremmo tutti chiamarci Andrea, che si sveglia ogni mattina con una nuova idea” incalza senza mai scendere dalla bicicletta, accompagnandomi nel cammino. “E vivere come i marinai, che hanno sempre davanti a sé un orizzonte”

Riprende la conversazione al telefono e affretta il passo.
Vi saluto con rispetto” dice mentre, pedalando, se ne va.

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Lavoro sola

Lavoro sola, al mio tavolo; se alzo lo sguardo incontro un grande acero nel mio giardino che ora è verde ma tra poco mi donerà i colori dell’autunno.

Ho un tempo in cui devo concentrarmi, un altro in cui posso, lasciando le mani scorrere secondo ciò che sanno -mushin-, dedicarmi al nulla, all’essenza del vuoto, un dono meraviglioso che mi concedo per rigenerare la mente e il corpo.

C’è anche il tempo per i pensieri, per esplorare le linee che si dipartono da una tecnica così antica e profonda: il Giappone e la sua storia, la ceramica e il suo lavoro, la psicologia e la metafora e il tè e la sua ineguagliabile quiete. Lavoro sola ed è cammino e crescita dentro di me.

Fotografia di Stefania Maniscalco

Testo di Francesco Vitellini Traduzioni

(collezione di 8 cartoline a ispirazione Kintsugi, in vendita nel mio shop online Kintsugi Chiaraarte

La presenza dell’esserci

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Si snocciola in tasca il tempo trascorso insieme, dispiegato sul tavolo del bar, tra le tazzine del caffè bevuto in fretta, ingoiato insieme alle parole e agli occhi -fissi- su di te.

Sono stati giorni -lunghi- trascorsi dietro al vetro, senza mai perdersi uno sguardo, sfiorandosi solo la pelle, a volte nemmeno, un filo di respiro tra noi, solo un’intesa sollecita e pura, e cedimenti, paure, corse per sfuggirsi e ritrovarsi, un unico punto fermo, noi.
Sono stati giorni nei quali abbiamo dubitato di quello che avevamo scritto/detto/fatto/visto/sentito, in nome di falsi miti, fenici bruciate e mai risorte, un utero in affitto abortito, una bava di lumaca infettiva, dove passava lasciava arso e brullo. Abbiamo dubitato, corso il rischio di finire, di spegnerci, di non esistere e forse, di non essere mai esistiti.

Sono stati giorni pesanti. Succede che li ripensiamo, più tu che io, che sai bene, la mia memoria dovrebbe essere lunga -sono una donna si dice- ma non lo è, o forse ero morta quando ci siamo fatti a pezzi, non li voglio ricordare più, sono stati giorni bui, ora non più.

Guardo questo muro. Siamo in un bel borgo, ci sono muri ben conservati, case, mattoni, piccole vie pulite e linde. C’è gente che cammina, parla, gente che sorride, potrebbe essere la nostra casa, siamo fatti così, accogliamo, ci apriamo agli altri, siamo il filo da cui tutto si dispiega, siamo un unico sorriso e due vite.
Guardo questo muro. C’è una pianta, forse è glicine, ma è presto, siamo ancora in inverno, non ci sono le gemme ma si vede che la pianta è viva. Resta lì, appoggiata al muro, lui la sorregge, lei lo decora.
Sembriamo noi due, la nostra casa è muro, tu la forza, io la linfa, tu il sostengo, io il decoro.

Guardo questo muro. E poi guardo te, che mi sei accanto e parli e penso che, alle volte, casa è dove sei con me.

Giorni spettinati

Sai quei giorni spettinati?

Ti ci nascondi nei tuoi capelli, raggomitolata la tristezza tra i nodi, non si riesce a mandarla via.
È la malinconia del tempo finito, dell’assenza, dell’essersi perduti.
Basta allora partire, un viaggio in macchina, il riconoscersi sotto al vischio, tra gli sguardi costanti e rinnovati.

Non è dell’amore che hai bisogno ma della profondità di un sentimento eterno.

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Limiti

Questi sono i miei piedi. Sotto di me un muro scosceso di pietre. Lo so, da qui sembra piano; da sopra no, non lo è. Non è un muro però pazzesco, non occorrono corde fisse, basta scendere piano. Con attenzione. Senza paura.

Io invece ho paura e a causa di un pesante problema al ginocchio destro, un muro scosceso per me diventa un ostacolo grande. Un limite che da sola non so superare. Un limite fisico osteggiato dalla mente diventa invalicabile.

Vicino al muro scosceso c’è un prato con una stradina. Al fondo uno scorcio stupendo di mare. La gente arriva per fare una foto, per deliziarsi del vento ma il prato ha una recinzione di filo spinato. O meglio, il prato ha il filo spinato che diventa solo un filo di ferro sottile nella stradina.

È un filo di ferro. Non una montagna, non un filo spinato. Un filo. Un filo basso. Basta alzare una gamba e si passa. Ma la gente si ferma. Arriva tranquilla al filo e si ferma. Indecisa sul da farsi. Passano pochi attimi e tutti poi scavalcano ma prima si sono fermati.

Un limite resta un limite. Un limite fisico è insuperabile senza la mente. Un limite fisico aiutato dalla mente diventa superabile.

Ci si inerpica stretti nei vicoli dell’esistenza

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Ci si inerpica stretti nei vicoli dell’indifferenza, sono tempi bui di tensione e violenze verbali, anni di scorribande nelle piazze, bottiglie rotte, muri imbrattati di ideologia, non di fede che si è persa da tempo dietro a un pifferaio ubriaco.
Ci si inerpica e smarrirsi è un attimo, perdere il cuore intendo, la testa resta ma non ragiona, tenta di non vedere, si scollega da sé in un loop di sveglia, dormiveglia, sonno, vita, morte.

Cosa possiamo ancora scegliere, uomo o Dio che stai al fondo della luce? Ci è data una scelta o si è fatto il tempo nella nullità dell’esistenza?

Ci si inerpica stretti nei vicoli dell’esistenza, l’ho detto, costa fatica restare umani. Costa denaro, costa il cuore. Il mio. Il tuo. Costa la vita. Un prezzo equo per restare umani.

Il blu di un cielo rubato

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Foto Cecilia Coperchio

È dalle mie mani che passa il cronometro esatto delle stagioni, la precisione di un dettaglio rubino, il blu di un cielo rubato.

 

Vorrei amarti per sempre

Vorrei amarti per sempre, stampato qui, come una parola inadatta al verbo, un plurale stentato, un bacio. Vorrei restarti dentro come una promessa sbiancata dall’onda sugli scogli, una mano che graffia, un dito che scorre lungo le linee errate della mia schiena e tu, che la baci senza posa. Tu.
Vorrei non spegnere mai gli occhi dietro a un tramonto, riscattare le ore spese a non raccontarsi, quelle in cui non c’eravamo, prima, il tempo strapazzato dagli orologi, non dalla vita, neppure tu.

Vorrei amarti per sempre, senza esitazioni e senza fine, in un presente lineare che oltre ai problemi e agli inciampi, sa vedere chiaro l’orizzonte.

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Milano ha le rondini in cielo.

Milano mi accoglie con le rondini in cielo. Volano tra fili intrecciati, un garbuglio a quadri di immagini ed emozioni.

Milano è una storia da raccontare, la fede delle relazioni, lo stringersi degli occhi al sole, o racchiusi, gelatinosi, tra le nebbie.

Milano è il conservarsi di un desiderio, il discorrere lontano di mia madre; Milano è un abbraccio finito e uno da cominciare.

Milano è un filo dorato, il riverbero delle vene delle mie mani, il sudore acre della fatica; Milano è l’amore che non dico e quello che sai, il benedire di una mano.

Milano è l’ardire del suo vestito, il respiro appagato della notte, le urla, i pianti, l’indifferenza; Milano è l’adesso che mi appartiene.

Milano è una rondine che dipinge il cielo.

Certe perfezioni

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Winter Wineyard. Le Langhe. Piemonte -Roberto Pellegrino

Certe perfezioni meritano il silenzio per perdersi dentro.